Le nostre città sono ostaggio della pubblicità, ogni centimetro di spazio pubblico disponibile è utilizzato per promuovere e vendere prodotti o servizi. Fortunatamente si stanno moltiplicando azioni artistiche e attivistiche radicali per contrastare questo costante attacco ai nostri occhi, alle nostre orecchie e ai nostri cervelli.
AFFAMARE L’IMMAGINARIO
Cayce Pollard soffre di una particolare forma allergica che si manifesta con violenti attacchi di panico quando si trova di fronte a un logo o a un marchio commerciale.
Questa peculiare fobia rende la sua vita molto complicata in un mondo in cui la pubblicità è praticamente onnipresente, ma proprio grazie a questo disturbo ha potuto sviluppare delle capacità che l’hanno resa una delle consulenti di marketing più ricercate (e pagate) al mondo.
Cayce, protagonista del romanzo Pattern Recognition, pubblicato vent'anni fa da William Gibson, vive e si muove all’interno di una società distopica e di un mondo dai confini fluidi se non quasi inesistenti, poiché “tutta l'esperienza è stata ridotta, tramite le mani spettrali del marketing, a variazioni di prezzo sullo stesso prodotto”.
L’identità non è più definita da caratteristiche geografiche o culturali, ma dal brand che si indossa.
Se la profezia sulla fine delle identità nazionali si è purtroppo dimostrata errata, la mano spettrale - e sicuramente invisibile - del marketing ha invece effettivamente afferrato le redini della nostra società.
Siamo tutti e tutte circondati - o per meglio dire, accerchiati - da loghi e marchi commerciali, da messaggi e slogan pubblicitari, da brand che definiscono la nostra appartenenza a un gruppo sociale o a un altro.
Ognuno dovrebbe avere il controllo su ciò che vuole o non vuole vedere, eppure questo principio, tanto semplice quanto banale, viene costantemente messo in discussione dalle pubblicità che affollano gli spazi pubblici delle nostre città: enormi cartelloni riempiono i muri di vie e piazze, dei palazzi in costruzione, i ponteggi per le ristrutturazioni, i mezzi pubblici, addirittura chiese e basiliche. Non c'è centimetro quadrato delle nostre città che si salvi dall’aggressione dei messaggi pubblicitari.
Josh MacPhee, nella prefazione al saggio “Advertising shits in your head”, equipara la pubblicità ad altre tipologie di inquinamento che infestano le nostre città, come lo smog, il rumore del traffico, l’illuminazione costante che non ci permette più di poter godere di un cielo stellato.
L’inquinamento pubblicitario consiste in un bombardamento continuo, diretto ai nostri occhi e alle nostre orecchie, in grado di creare un danno alla psiche individuale e collettiva. Un danno, o meglio una patologia, che potremmo chiamare consumismo.
La pubblicità non è certo una novità recente, ma con il passare degli anni, silenziosamente, i messaggi pubblicitari si sono impossessati di ogni spazio pubblico esistente. Sembra essersi realizzato quel l'immaginario cyberpunk riprodotto nelle scene di Blade Runner in cui la macchina volante di Rick Deckard attraversa lo skyline infiammato di una Los Angeles completamente ammantata di video e audio che pubblicizzano viaggi nelle colonie extra-mondo e ristoranti di sushi e sashimi.
D’altra parte, se come scrive David Graeber, “nella misura in cui le persone costruiscono le proprie identità, queste identità sono in gran parte basate sulle auto che guidano, i vestiti che indossano, sulla musica che ascoltano e sui video che guardano”, la più grande ambizione delle aziende è quella di riuscire a plasmare la nostra identità facendoci così diventare loro clienti. Ma la competizione è alta e devono gareggiare fra loro in una lotta senza quartiere.
La pubblicità, il cavallo di Troia con cui il capitalismo vampiresco entra nelle nostre teste e risucchia le nostre anime e i nostri soldi per garantirsi la sopravvivenza, è un male con cui ci troviamo a convivere da almeno un secolo.
Il regista britannico Adam Curtis, nella serie documentaristica “The century of the self,” racconta di come, a partire dagli anni ‘20 del secolo scorso, le teorie psicoanalitiche di Freud siano state riprese e riadattate dal nipote Edward Bernays, per perfezionare messaggi pubblicitari capaci di penetrare sempre più in profondità nelle menti dei cittadini, trasformandoli così in puri consumatori.
Ciò che la propaganda era in grado ottenere in tempo di guerra poteva essere replicato in tempo di pace: bastava sostituire l’oggetto politico attorno a cui creare consenso con un prodotto di consumo, attorno a cui suscitare l’interesse dei consumatori.
Le strategie pubblicitarie oltre che lavorare sull'incisività e sulla capacità di colpire le nostre debolezze di cittadini-consumatori, puntano quindi sempre più sulla pervasività: per essere efficace e vincere la “competizione di mercato”, la pubblicità deve essere ovunque, occupare ogni spazio, dev’essere presente ovunque ci giriamo.
D’altra parte, come afferma lo stesso Bernays, “in ogni atto della nostra vita, sia nel campo della politica che degli affari, nel nostro comportamento sociale o nel nostro pensiero etico, siamo dominati dal un numero esiguo di persone che comprendono i processi mentali e i modelli sociali delle masse”.
La pubblicità si è quindi data il compito di modellare e rimodellare costantemente l’immaginario collettivo, così da mettere il capitale nelle migliori condizioni per produrre i beni di consumo con cui nutrirlo. Solo che l’immaginario, stressato dalla costante esposizione alla pubblicità, è divenuto sempre più variegato e complesso e, parafrasando Sut Jhally, ha innescato un processo di infinita crescita che per sostenersi ha bisogno di consumare sempre più risorse che, però, sono finite.
Si tratta di un attacco costante e violento ai nostri spazi pubblici, un attacco che merita una risposta forte, decisa e radicale. Il primo passo consiste nel non definire più gli spazi urbani come “pubblici”, bensì come spazi condivisi dalla collettività. Come rileva ancora MacPhee, “pubblico” ormai significa “gestito e organizzato dallo Stato o dall'amministrazione locale”, e poiché né lo Stato né le amministrazioni sono in grado di emanciparsi dal collare sempre più stretto delle aziende private, l'unico modo per riappropriarsi dei nostri spazi è di fare un modo che i singoli individui che costituiscono e partecipano alla comunità riacquistino il potere di decidere cosa i loro occhi o gli occhi dei loro figli devono vedere.
Bill Posters, pseudonimo dell’artista e attivista Barnaby Francis, propone un’idea ancora più radicale sulla questione. “Lo spazio pubblico è l’arena in cui non dovrebbe regnare nessuna autorità e dove una moltitudine di voci dovrebbero poter essere ascoltate. Parto quindi dalla convinzione, profondamente democratica, che la sfera pubblica debba essere un luogo di comunicazione, un luogo dove le persone possono parlare, stabilire la propria presenza, affermare i propri diritti”.
SOVVERTIRE L’IMMAGINARIO
Secondo l'artista e attivista romano Hogre, “la costante imposizione di messaggi pubblicitari di fronte ai nostri occhi è un atto oppressivo dittatoriale e violento. Per questo rimuovere o sostituire o addirittura deturpare le pubblicità è un atto di disobbedienza civile che andrebbe difeso”.
Le pratiche di subvertising, termine che unisce “subvert”, cioè sovvertire, e advertising, pubblicità, si stanno moltiplicando in tutto il mondo: dagli Stati Uniti, all'America Latina, fino all'Europa, artisti e collettivi stanno prendendo di mira gli spazi occupati dalla pubblicità, restituendoli alla comunità e promuovendo messaggi sociali o di pubblico interesse.
Come riporta il catalogo della mostra “The art of subvertising”, ospitata nell’estate del 2022 dal Kunstraum Kreuzberg di Berlino, il subvertising può essere definito come un atto che stravolge l’obiettivo della pubblicità. È un tentativo di intervenire nel panorama visivo e di minare l' egemonia capitalocentrica nello spazio pubblico.
Gli artisti e gli attivisti che praticano il subvertising vogliono riappropriarsi dello spazio pubblico e ridarlo alla collettività. Certo, non è realistico pensare che delle pratiche di lotta dal basso possano sovvertire da sole il sistema capitalistico o riportare i destini del pianeta su una traiettoria più sostenibile.
La lotta è impari: basti pensare che nel 2022, come ha riportato The Guardian, la multinazionale inglese del petrolio BP ha speso più di 800.000 sterline solo in sponsorizzazioni di post sui social media.
Negli otto giorni precedenti all’annuncio ufficiale dell’utile di bilancio dell’anno scorso, BP ha investito circa 579.000 sterline su Facebook e Instagram per promuovere dei post "destinati a creare un'immagine positiva sulle aziende del gruppo e migliorandone l’accettazione sociale", come ha dichiarato Doug Parr di Greenpeace UK.
Restando in un altro settore con un forte impatto sull’ambiente, quello delle automobili, nel 2022 la General Motors, azienda con sede a Detroit nota per diversi marchi come Chevrolet, Cadillac e Buick si è classificata al primo posto per investimenti pubblicitari negli Stati Uniti, spendendo la cifra record di 3,25 miliardi di dollari.
Sempre nel 2022 Coca Cola Co. ha addirittura aumentato la sua spesa pubblicitaria globale di circa il 12% rispetto al 2021, arrivando a superare i 4,5 miliardi di dollari in un anno, mentre Burger King e McDonald’s si sono “limitati” rispettivamente a circa 500 e 400 milioni di dollari.
Visti i numeri da capogiro che vengono investiti in marketing e pubblicità dalle aziende multinazionali, è difficile pensare che collettivi e movimenti grassroots possano competere sul piano dell’efficacia del messaggio, ma nonostante ciò, la diffusione di pratiche di resistenza radicali contro l'inquinamento pubblicitario rimane un'ottima notizia per chi pensa che strade, parchi e piazze debbano tornare a essere luoghi di vita, aggregazione e promozione di valori sociali.
È il caso del collettivo Guerrilla Girls, che ha realizzato diverse campagne di subvertising in tutto il mondo, affiggendo manifesti per le strade con lo scopo di mettere in luce i pregiudizi di genere e la corruzione nell'arte, nel cinema, in politica e nella cultura pop.
Una loro recente campagna ha preso di mira il Metropolitan Museum di New York: le Guerrilla Girls hanno affisso nei vagoni della metropolitana cittadina diversi manifesti autoprodotti che riportano dati e statistiche sull’esclusione delle donne dal sistema museale. Uno dei manifesti più suggestivi riporta come solo il 5% delle opere esposte nel Metropolitan Museum sono firmate da donne, mentre l’85% dei nudi esposti raffigura corpi femminili.
Proyecto Squatters è un altro collettivo composto principalmente da attiviste e artiste che hanno iniziato le loro attività di subvertising nel 2008 a Buenos Aires, con l’obiettivo di portare alla luce e contrastare le strategie con cui pubblicità e propaganda corporate tentano di influenzare la società.
di Proyecto Squatters
Coca Cola, Burger King e McDonald's sono solo alcune delle aziende prese di mira dal collettivo, che grazie a divertenti cambiamenti semiotici, riesce a mutare il messaggio che le aziende vorrebbero dare al pubblico. Il motto “Magia Reale” (“Magia de Verdad”) che compare sui cartelloni della famosa bibita in tutto il Sud America, ad esempio, viene corretto in “Mafia Reale” (“Mafia de Verdad”).
Nei messaggi affissi sulle strade delle città argentine, Proyecto Squatters invita sempre i concittadini a replicare l'azione su altri manifesti pubblicitari, come atto di protesta per contrastare le attività di greenwashing e il pinkwashing delle grandi multinazionali.
Guerrilla Girls, Proyecto Squatters e altri collettivi e campagne come per esempio Resistance is Female e Art in Ad Places, sfruttano le tecniche del subvertising per promuovere messaggi femministi e a favore dei diritti delle donne, in aperto contrasto con l’immaginario cavalcato dalla pubblicità tradizionale, che fa invece un uso strumentale del corpo delle donne per scopi commerciali.
Un altro campo di battaglia battuto dai collettivi che praticano il subvertising è quello ambientale, in particolare per quanto riguarda la lotta contro le multinazionali del petrolio e del gas e dei governi accondiscendenti nei loro confronti, che, con strategie di marketing e di lobbying, cercano di ripulirsi la faccia e la coscienza.
Uno dei collettivi di subvertising più famosi a livello internazionale, l’inglese Brandalism, fin dal 2012 porta avanti una lotta a suon di manifesti contro l’avidità, la corruzione e gli abusi di potere delle grandi multinazionali del settore estrattivo. Tra le campagne più celebri targate Brandalism, c’è quella organizzata a Parigi nel 2015 in occasione della COP21, la convenzione sui cambiamenti climatici, quando in collaborazione con oltre 100 artisti parigini e altri 80 artisti provenienti dal resto del mondo, hanno sostituito 600 cartelloni pubblicitari in tutta la città, con messaggi che mettevano in evidenza le azioni di greenwashing promosse dai maggiori inquinatori mondiali e dall’esercito dei loro lobbisti.
Sulle cause del disastro climatico e sui comportamenti irresponsabili di multinazionali e governi fa leva anche la campagna OilyFans, lanciata nel Regno Unito e basata su manifesti pubblicitari satirici che prendono di mira i manager delle grandi aziende estrattive e i loro spropositati guadagni.
di OilyFans
Per questo motivo, l’affissione di numerosi manifesti a Londra è avvenuta pochi giorni prima dell’annuncio ufficiale dei profitti del secondo trimestre di BP, con l’obiettivo di attirare l'attenzione sulle disuguaglianze economiche e sui danni ambientali causati dall'industria dei combustibili fossili.
Come detto poco sopra, lo squilibrio di mezzi e risorse nella lotta per veicolare i messaggi negli spazi pubblici, è improbo: se le multinazionali hanno a disposizione miliardi, gli attivisti che provano a contrastarle possono contare solo sulla creatività, l’entusiasmo e il supporto di chi ne approva l’operato ed è pronto a replicarlo.
Per questo motivo il collettivo inglese Special Patrol Group ha predisposto una vera e propria cassetta degli attrezzi per chiunque voglia unirsi alla loro lotta contro la pubblicità: si chiama “ad-space hack pack" e contiene tre brugole che consentono di aprire le vetrine dove vengono inserite le pubblicità alle fermate degli autobus nel Regno Unito.
di Brandalism
Non mancano nemmeno i video tutorial su come hackerare gli spazi pubblicitari nelle fermate dei mezzi pubblici, come “Ad Hack - How to access Bus Stop Advertising Spaces” prodotto da Brandalism e accessibile da chiunque su YuoTube.
Una delle caratteristiche interessanti del movimento sta proprio nella sua volontà di fare rete e di diffondersi, permettendo ad altri artisti e attivisti in erba di replicare le azioni di sabotaggio dei manifesti pubblicitari.
Oltre al “ad-space hack pack” di Special Patrol Group, un altro progetto che merita di essere menzionato è “Public Access Keys” di Jordan Seiler, artista newyorkese che produce artigianalmente e vende sul proprio sito internet le chiavi e le brugole per aprire le vetrine delle fermate degli autobus. Se c'è una fermata dell'autobus che necessita di una chiave particolare per essere aperta, si può scattare una foto e inviarla a Jordan Seiler, che cercherà di creare una chiave funzionante, che poi renderà disponibile a tutti sul proprio sito, con una mappa che indica quali chiavi sono necessarie e dove.
di Illustre Feccia
La lotta per la riappropriazione degli spazi urbani da parte della comunità che li vivono e li attraversano passa anche dal rifiuto di cedere quegli stessi spazi ad aziende e privati che li sfruttano come veicolo di marketing. Dare per scontato - come purtroppo stiamo facendo - che lo spazio pubblico sia uno dei tanti spazi a disposizione del capitalismo per fare profitto, significa arrendersi al fatto che il pubblico non sia ormai più uno “spazio di tutti”, ma solo di chi può offrire di più. E ribellarsi contro questa logica è un imperativo.
MARLATTACK!
Anche noi ovviamente ci siamo divertiti a creare dei manifesti per rendere più belli, colorati e ricchi di significato i muri della nostra città.
Potete trovare i manifesti prodotti fino ad ora nella pagina del nostro sito dedicata al subvertising, altri verranno aggiunti nei prossimi mesi.
Se volete condividere delle vostre creazioni da rendere disponibili sul nostro sito per essere scaricate e, chissà, attacchinate sui muri delle nostre città, potete inviarcele all’indirizzo mail: comunicazione@infonodes.org
Qui le regole che suggeriamo di seguire se - ben inteso contro la nostra volontà e contro il nostro parere - deciderete di attaccare dei manifesti nelle vostre città.
Se MARLA ti piace, supportaci con una donazione ❤️
Grazie
Condivido il ragionamento, ma penso che la dinamica sia molto più complessa. Non credo esista un bianco e un nero …;-)